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La vita affondata dai romanzi. Rushdie, Ellis e Coetzee

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Questo pezzo è uscito su Orwell.

Scrivendo le proprie memorie in terza persona Salman Rushdie ci sta dicendo che Joseph Anton sarebbe un bel libro anche se si trattasse di letteratura di finzione. Anche se fosse solo un romanzo. Il che avrebbe senso, considerando che la storia di Rushdie, in sintesi, è quella di uno scrittore che si è complicato tremendamente la vita proprio con un romanzo, I versi satanici, valutato sul piano teologico (come qualcosa, quindi, di più di un romanzo). Certo, avrebbe fatto meno fatica se si fosse limitato ad aprirci il suo cuore con una confessione sincera in prima persona, invece di rappresentarsi come un personaggio all’interno di quella riproduzione in scala della vita che è il romanzo, con tutto il lavoro di ricerca e le difficoltà che deve aver comportato mettere una vicenda come la sua, personale e di dominio pubblico, alla giusta distanza (alla fine del libro, ad esempio, Rushdie ringrazia gli archivisti dell’Emory University per il lavoro di catalogazione dei suoi documenti).

Quella di Rushdie è una scelta generosa che si può spiegare come un omaggio al mondo della finzione da parte di uno scrittore che ha rischiato che il mondo reale prendesse il sopravvento sulle sue opere, fraintendendole e impedendogli la necessaria libertà fisica e mentale per produrne di nuove.

(“L’autore di questo pezzo, va detto, è uno di quei sostenitori della superiorità delle opere sulla vita, e in omaggio agli autori trattati e al loro coraggio letterario lo dichiara usando la terza persona”.)

Rushdie cita Yeats: “L’intelletto dell’uomo è costretto a scegliere tra la perfezione della vita e quella dell’opera” e alla fine del primo capitolo ci dice che durante la stesura de I versi satanici, appeso al muro davanti alla scrivania (anche se non possiamo essere certi che il muro del Rushdie personaggio coincida con quello dell’autore del libro che teniamo in mano), teneva un appunto per ricordarsi di cosa significa portare a termine un libro: “Per guadagnare in futuro l’immortalità, o per lo meno la posterità, si perde, o perlomeno ci si rovina, l’esistenza quotidiana nel presente”.

Che esistenza quotidiana e immortalità si ostacolino a vicenda è il tema di fondo di altre due autobiografie, diciamo così, anomale. Breat Easton Ellis sembra sincero quando, nella prima parte di Lunar Park, parla in prima persona del rapporto col padre e dei problemi derivati dal successo ottenuto troppo velocemente (soldi e droga). Prova anche a mettere in chiaro la sua tanto chiacchierata sessualità, solo che dopo una quarantina di pagine si trasferisce in campagna, in seguito ad attacchi terroristici mai avvenuti a New York, con una moglie e un figlio che nella realtà non esistono, anche se la moglie attrice ha un vero sito con tanto di filmografia e il figlio Robby una pagina Myspace. Con un’esistenza quotidiana decisamente invadente, Ellis spinge la confusione dei piani fino a capovolgerli.

Se nella vita vera riceveva lettere minatorie in cui anonimi lettori dicevano di volergli fare quelle stesse cose che lui aveva fatto alle vittime di American Psycho (e a Toronto un serial killer si è davvero ispirato al libro), in Lunar Park è direttamente Patrick Bateman, protagonista di American Psycho, ad accusare al telefono il suo autore come responsabile morale degli omicidi avvenuti all’interno di Lunar Park. “Se fossi in te darei un’altra occhiata a quello sporco libercolo che hai scritto”, gli dice Bateman.

In un certo senso è come se Breat Easton Ellis si sovraesponesse senza pudore per rendere impossibile qualsiasi distinzione tra verità e menzogna al di fuori del libro, come se ogni narratore fosse per statuto inaffidabile. J.M. Coetzee, invece, si spinge ancora più in là dichiarando apertamente, con la sua trilogia autobiografica, che ogni libro è una bugia di cui sospettare.

Già a partire dai primi due libri, Infanzia e Gioventù, Coetzee rompe con le convenzioni dell’autobiografia scrivendo in terza persona e al tempo presente. Come è stato notato da William Deresiewicz sul New York Times utilizzare il presente significa disattendere il patto con il lettore, solitamente libero di collegare gli avvenimenti passati della narrazione con quello che sa dell’autore. Allo stesso modo in Gioventù non c’è traccia di talento letterario, il futuro premio Nobel è un poeta impiegato all’IBM, un ventenne dalle velleità frustrate. Rovesciando il paradigma romantico dell’artista guidato dalla propria interiorità, e quello estetista della vita come opera d’arte, il suo racconto di formazione non porta a nulla.

L’ultimo capitolo della trilogia, Tempo d’estate (2009), fonda la propria inaffidabilità sul presupposto di base che Coetzee è morto e quelle che stiamo leggendo sono cinque interviste ad altrettante donne che lo hanno conosciuto. Donne che, per giunta, mettono continuamente in discussione il modo in cui lo sconosciuto intervistatore porta avanti le interviste. Una di loro chiede all’intervistatore che tipo di libro abbia intenzione di mettere insieme: “È un libro di pettegolezzi o è un libro serio? Ha un’autorizzazione?”. Ma il sospetto nei confronti dell’opera serve solo, ancora una volta, a ribadire la sua superiorità nei confronti di quella vita a cui tutti, tranne gli scrittori, sembrano tenere tanto. Così l’intervistatore risponde a quella domanda con un’altra domanda, come avrebbe fatto Coetzee in persona: “C’è forse bisogno di un’autorizzazione per scrivere un libro? E a chi la si dovrebbe chiedere?”.


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